Innanzitutto, va detto che l’obbedienza è radicata nell’essere umano. Ogni persona sperimenta l’interdipendenza, in famiglia, nella società o nell’ambiente culturale dov’è cresciuta. Tutti noi siamo segnati fin dall’inizio dal desiderio di dialogare, collaborare, ascoltare ed essere ascoltati.
Questa esperienza iniziale di obbedienza nei nostri ambienti ci ha preparato a fare un ulteriore passo quando abbiamo incontrato Gesù nella vita cristiana. Avevamo già delle predisposizioni che hanno più o meno facilitato la nostra adesione alla fede cristiana.
L’obbedienza concepita come imitazione dell’obbedienza di Cristo ci introduce ad uno stile carismatico, profetico e missionario. È, infatti, lo stesso impulso carismatico, lo stesso soffio dello Spirito che anima e percorre l’atteggiamento del giovane Samuele (“Parla, Signore, il tuo servo è tenebroso”), la disponibilità di Isaia (“Eccomi, manda me”) e l’olocausto di Cristo (“Eccomi, vengo… per fare la tua volontà”). Ascoltare la Parola, accoglierla per viverla, rendersi disponibili a portarla ovunque Dio ci mandi: questo è l’atteggiamento comune a tutti i profeti che si sono consacrati a Dio.
Se prendiamo in considerazione il carattere profetico della vita religiosa, carattere che deve emergere e diffondersi con più forza nel contesto africano, dobbiamo rivalutare l’obbedienza come modo privilegiato di stare davanti a Dio. Dovrebbe essere sufficiente a caratterizzare una vita, un impegno, un’opzione: a condizione che ricostruisca le sue radici e la sua linfa biblica, sulla scia di Cristo e dei profeti. L’atteggiamento nazareno del profeta, che gli fa consacrare la sua vita a Dio, è preceduto dall’esperienza carismatica attraverso la quale la Parola di Dio viene soffiata in lui dall’alto. L’obbedienza si caratterizza allora come uno stile di vita in cui si stabilisce tra Dio e l’uomo una relazione di ampiezza e intensità completamente nuove. I poli di questa relazione saranno: la priorità assoluta data alla Parola trasformata in un nuovo Messaggio; un nuovo orientamento e organizzazione della sua vita per attualizzare il suo messaggio; infine, una nuova disponibilità nei confronti del popolo di Dio.
Attraverso il voto di obbedienza, i consacrati sono legate a un Istituto che ha una missione da svolgere nella Chiesa. In questo modo, partecipano alla missione della Chiesa, che a sua volta partecipa alla missione di Cristo Gesù per la salvezza del mondo. Esiste una sola missione, quella di Cristo. La Chiesa è missionaria, con il compito di compiere la volontà di Dio per tutti gli uomini, di condurli alla salvezza. Così, il voto di obbedienza, che integra le persone consacrate in un Istituto della Chiesa, dispone le persone consacrate a una migliore realizzazione della volontà di Dio nel vivere una vita apostolica. La persona consacrata non si assegna una missione, ma la riceve e deve renderne conto.
In questo modo, l’obbedienza religiosa è un’obbedienza missionaria. Integra le persone consacrate nella grande opera di salvezza attraverso la mediazione della Chiesa, dell’Istituto e dei loro superiori. L’obbedienza non segna solo l’obbedienza interna della vita consacrata, ma anche il suo impegno. Questa obbedienza missionaria è chiamata a essere dinamica e attiva. L’autentica obbedienza, come quella di Cristo, presuppone impegno personale, libertà evangelica e personalità. È questa obbedienza che genera gioia sia per chi obbedisce (il Fratello o la Sorella) sia per chi richiede l’obbedienza (il Responsabile).
Alcune difficoltà incontrate nell’obbedienza nel contesto africano.
La situazione conflittuale che devasta gli ambienti africani si ripercuote sulle comunità religiose (rifiuto, spirito selettivo, settarismo, attaccamento a se stessi).
Il tribalismo può essere una deviazione nel modo di vivere l’obbedienza. Obbediamo ai nostri responsabili per il semplice motivo che appartengono alla nostra tribù, al nostro clan o al nostro gruppo etnico, siamo disposti a fare tutto ciò che ci chiedono e non siamo più capaci di fare la stessa sottomissione a chi non è della nostra parte. In questo caso, sono gli interessi della nostra tribù a venire prima di Cristo. L’amore per la tribù non è un male in sé. Ciò che è negativo è il fatto che assolutizza il suo valore. Gesù ci ricorda: “Questo è il vostro modo di parlare: sì, sì; no, no. Tutto ciò che va oltre viene dallo spirito del male” (Mt 5,37).
Per arrivare alla vera obbedienza, dobbiamo uscire dal processo di identificazione (etnica e tribale) che paralizza la vera obbedienza, per impegnarci nell’obbedienza fiduciosa, in un grande abbandono alla sua volontà, in un rapporto di fede e di amore.
L’amore che Dio ha diffuso nei nostri cuori attraverso lo Spirito Santo (Rm 5,5) è un amore universale. Non esclude nessuno. Si estende a tutti gli uomini, indipendentemente dalla loro razza, cultura o livello di civiltà. Pertanto, dobbiamo amare e obbedire non solo a chi ci ama o appartiene al nostro gruppo etnico. Possiamo parlare di obbedienza e di amore fraterno nella vita religiosa solo quando il nostro concetto di fraternità supera i limiti della fraternità umana ed etnica.
Non si tratta più semplicemente di un voto di obbedienza preso come un sì schematico a un uomo (che sia del mio gruppo etnico o meno) che prende il posto di Dio; questa obbedienza è normale in qualsiasi comunità gerarchica. Per i religiosi, non è altro che un momento di obbedienza profetica che, al minimo segno, mobilita tutto l’essere verso Dio. “Diventare obbedienti fino alla morte” è un frutto dello Spirito che soffia dove vuole.
Don Domingos Cà, Guinea Bissau
Chi è Don Domingos
Don Domingos è originario della Guinea-Bissau dove è nato l’11/05/1965; il 19 maggio 1991 è stato ordinato sacerdote a Bissau. Formazione: studi biblici al Pontificio Istituto Biblico di Roma e alla Pontificia Università Gregoriana. Attualmente è professore di Sacra Scrittura e di lingue ebraica e greca nel Seminario Maggiore di Bissau; amministratore della Curia di Bissau; presidente della Commissione della riconciliazione nazionale nel Parlamento; coordinatore della pastorale biblica nella Diocesi.