Due parole che ne significano tre: chiamata-amore-giovinezza. E’ questo il titolo che con il quale iniziamo una nuova rubrica ancorata alla Parola di Dio, attraversata dalla missione e aperta a quella fase della vita che lo scorso Sinodo ci ha consegnato come un imperativo: la cura dei giovani.
E’ affidata a due Padri del Pime che, ad ogni numero, rileggeranno per noi le giovani chiamate della Scrittura.
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Caino e Abele: quel che resta da fare.
Se di seguito avessi scritto di Abramo, Isacco o Giacobbe, o qualcuno dei profeti, nessuno avrebbe obiettato. Sono tutte figure positive, edificanti, chiamate per compiere il progetto di Dio e capaci di portarlo a termine. Ho invece scelto di parlarvi di Caino e Abele, perché il primo dei due giovani fratelli fa i conti con la possibilità opposta alla chiamata, quella di pervertire il progetto di Dio, a motivo di un personale risentimento: la sua gelosia verso il fratello Abele. Forse nasce da questo racconto il famoso proverbio: ‘amore di fratelli, amore di coltelli’.
Al centro della vicenda non sta il perché Dio abbia preferito l’offerta di Abele a quella di Caino – qualcuno dice che andò così perché Dio predilige sempre il secondo, il minore, e mai il primo, Abele era infatti il secondogenito di Eva. Al centro sta piuttosto la potenza dei sentimenti, il loro prorompere dirompente. Caino – si legge nella Scrittura – di fronte al successo del fratello «fu molto irritato e il suo volto era abbattuto» (Gen 4,5).
Per qualche altro studioso quel “preferire” non era tanto un pensiero di Dio, quanto un modo per dire, tra persone credenti, che ad Abele gli affari andavano meglio e lo si riteneva benedetto dai favori divini. In fondo le chiacchiere di paese sulla fortuna o la sfortuna della gente spesso chiamano in causa il cielo! Il testo però vuole portarci da un’altra parte per considerare che, forse, i due fratelli sono in realtà una sola persona, abitata da due forze uguali e contrarie. Caino e Abele raccontano di due dimensioni che abitano in tutti noi, il buio e la luce, il peccato e la grazia, la guerra e la pace.
Basta un sentimento, la gelosia per esempio, e subito anche il miglior discepolo si trasforma nel suo contrario. Non ci si cura più della fede e si coltivano vendette, nel silenzio dei propri mondi piccoli e meschini, gabbie, dove vince il più forte e tutti sono solo oggetti da usare e buttare. La Scrittura parla della vicenda di due giovani fratelli per dire qualcosa di noi! Che il peccato, per esempio, è accovacciato alla nostra porta (4,7), che ciascuno di noi è abitato da un istinto incontrollabile che ci fa alzare «la mano contro il fratello» (4,8). O ancora, che come Caino ci giriamo dall’altra parte, «sono forse io il custode di mio fratello?». (4,9). Caino e Abele sono la prima coppia di fratelli di cui si parla nella Scrittura e il loro rapporto è già segnato dal prevalere della violenza. Come se ogni esperienza di fraternità, tanto più tra le mura domestiche, portasse con sé il rischio di impoverirsi a tal punto da far prevalere le logiche di guadagno e di potere. Senza più il coraggio di guardarsi in faccia. È significativo, infatti, che nel brano in questione, i due fratelli non si rivolgano mai la parola.
In una ri-Scrittura della vicenda di Caino, la poetessa M. Gualtieri, a partire dal testo biblico, immagina gli stati d’animo di quest’uomo così violento. Si parla poco di Caino e tendenzialmente sempre male. Il Caino della Gualtieri invece è così cosciente del proprio male che pensa a se stesso come al «primo sbaglio di Dio».[1] Si trova addosso una violenza che lui stesso non sa spiegarsi. Che abbia a che fare con un errore divino? Con qualcosa che è successo all’inizio, una caduta, un tonfo profondo che fa della storia umana sempre un percorso in salita? Perché il male, anche tra persone dello stesso sangue?
Vi scrivo dalla Cambogia, Paese meraviglioso eppure tristemente noto per l’eccidio perpetrato dai Khmer rossi contro la loro stessa gente. Ricordo che il mio insegnante di lingua khmer, pur parlando poco di quel periodo che aveva vissuto e da cui era scampato, notte tempo, nelle tante notti insonni, si chiedeva perché? Perché cambogiani contro cambogiani, fratelli contro fratelli? Quelle notti insonni, mi diceva, erano abitate dalla paura che potesse accadere tutto di nuovo. Di lui purtroppo ho ormai perso le tracce, ma quella domanda risuona ancora, nelle mie notti insonni. Forse come Caino siamo tutti uno sbaglio di Dio?
Chiamo in causa un altro poeta a me caro, R. Barsacchi. In una sua poesia, potente e al contempo luminosa, scrive così:
«Non chiederti il perché / del dolore, del male. /
È successo qualcosa in principio, di cui / non vuol parlare Dio stesso. /
Mandò suo figlio a rimediare. / E basta. / Nessuno saprà mai» (R. Barsacchi).
Mi piace pensare alla mia presenza in Cambogia e al lavoro missionario in genere come ad una partecipazione alla missione di quel figlio mandato a rimediare. Si, forse Caino sembra davvero uno sbaglio, un Suo sbaglio, uno sbaglio di Dio al quale però rimane ancora la responsabilità di lavorare alla sua creazione. «È talmente d’amore la sostanza di cui siamo fatti che se non siamo amati diventiamo deformi», conclude M. Gualtieri. La missione comincia da qui: qualche piccola riparazione, lavorare ancora alla creazione, per sé, per gli altri.
di p. Alberto Caccaro – PIME