Ho un ricordo molto vago e confuso delle immagini che alla fine degli anni ’90 mostravano al telegiornale migliaia di profughi del Kosovo sulle frontiere con Macedonia e Albania. Allora vivevo con la mia famiglia a Basilea dove eravamo emigrati dalla Sicilia per mancanza di lavoro, una realtà condivisa da tanti: in prima elementare solo 5 bambini su 25 erano svizzeri, tutti gli altri di provenienze varie, chi dalla Turchia, chi dall’ Italia o dall’Albania, bambini dalla Croazia e chi, diceva, “dalla Jugoslavia”. Per molte delle loro famiglie erano le circostanze drammatiche della guerra nell’area balcanica ad aver causato quell’emigrazione forzata. Solo oggi, a distanza di venticinque anni intuisco a un livello nuovo e delicato lo scenario che allora abitava quella piccola comunità di bimbi in una prima elementare della Svizzera.
Uno sguardo nuovo per me, dato dal sopralluogo che il mese scorso ho fatto nei Balcani insieme ai confratelli p. Ivan, p. Alessandro e p. Vivier, coi quali la collaborazione e il lavoro sono stati arricchiti da una vera sensazione di complementarità e dall’amicizia. Lo scopo del viaggio era di programmare il nuovo campo estivo per giovani dal titolo “Exodus, anche oltre”, un percorso on the road verso Salonicco: si tratta di un cammino per andare “anche oltre” i confini, sui passi di chi cerca un futuro migliore, attraverso Croazia, Bosnia, Kosovo, Grecia e Serbia per incontrare storie, fedi, popoli differenti. Uscire: fare memoria di come la pace sia un dono fragile affidato dal Signore alle nostre mani e interrogarci su ciò che il Vangelo propone a ciascuno di noi.
Siamo partiti per il sopralluogo pieni di passione e di desiderio per questo nuovo progetto estivo a cui crediamo tanto, ma assolutamente ignari della ricchezza e della profondità che si sarebbero riversate su di noi oltre ogni aspettativa. Così, la percezione di esserci buttati in qualcosa di gran lunga più grande di noi ci ha condotti sin da subito ad ogni tappa, da un incontro all’altro.
La prima sosta l’abbiamo fatta a Belgrado dove siamo entrati in contatto per caso (o “per Provvidenza”) con la comunità dei gesuiti, la quale ci ha aperto le vie per conoscere le focolarine e alcuni preti diocesani: iniziali scambi (compreso quello con la Caritas locale) che ci hanno fornito la prima lente preziosa sulla complessità della storia dei Balcani.
Spostandoci a Salonicco, dopo qualche tentativo vano di trovare una realtà religiosa, siamo finiti nella parrocchia di santa Caterina in centro, dove proprio quella sera si celebrava la Messa in italiano (una sola al mese!!!) con la piccola comunità di fedeli italiani. Sorpresi da quest’altra coincidenza abbiamo colto l’occasione per addentrarci nelle storie di migrazione di quella gente, grazie alla loro accoglienza calorosa e a quella del parroco don Giorgio! Bellissima l’esperienza della Messa in greco il giorno successivo e della camminata alla ricerca dei luoghi di san Paolo, lì, nella “sua” Tessalonica: una strana fierezza ha mosso quei nostri animi improvvisamente catapultati nell’antichità preziosissima e viva della nostra identità!
L’arrivo in Kosovo – a Peja – ci ha aperto uno scenario totalmente diverso: alcuni operatori di JRS (Jesuit Refugee Service) ci hanno letteralmente accompagnati nel varcare il suolo sacro di quella terra tutt’ora ferita e in conflitto. Disarmante il loro senso di ospitalità e di dedizione, tangibili nel tempo trascorso con noi, nel pranzo offerto, nello spostamento a Pristina per visitare insieme alcuni punti significativi della città in un dialogo e narrazione continui. Ad arricchire l’esperienza in Kosovo sono stati anche gli incontri preziosi con p. Dominic – salesiano preside della scuola che ci ospiterà quest’estate -, con due preti diocesani e con le suore di Madre Teresa: in particolare con quest’ultime abbiamo condiviso l’intensità della celebrazione Eucaristica e di uno scambio allegro e prolungato, occasioni per respirare un clima di comunione e di fraternità speciali.
L’ultima tappa si è svolta a Sarajevo e ha aggiunto un importante tassello al mosaico vivissimo di questo viaggio! Tre conoscenze sono state per noi cruciali in Bosnia: il confronto con don Simo, responsabile del centro diocesano per la pastorale giovanile Giovanni Paolo II, il tempo trascorso con Daniele Bombardi, coordinatore di Caritas italiana per l’area balcanica e la visita guidata dalla psicologa Marina nella scuola interetnica fondata con sapienza profetica da monsignor Pero Sudar, vescovo ausiliare dell’arcidiocesi di Sarajevo. Ciascuno di questi contatti vissuti – come quelli precedenti – richiederebbe una pagina a sé per poter accennare a malapena alla Bellezza di un’ospitalità, di una cura e di un impegno sociale che sono stati per noi segni tangibili del dono di sé senza riserve per promuovere la fraternità e la pace nell’area balcanica!
Basilea 1999, i ricordi continuano ad essere vaghi e confusi, ma adesso ne riaffiorano altri e prendono più forma dopo il sopralluogo. Papà tornava spesso molto rattristato da lavoro (era commesso alla coop) raccontando di una scena molto toccante che si ripeteva ogni giorno in quei mesi: il collega albanese del Kosovo e quello serbo non si parlavano, facevano la pausa pranzo separati per evitarsi, restavano in silenzio coi volti molto duri ed erano, come nei propri paesi, “in guerra” tra loro. E tuttavia papà raccontava di vederli uscire dal bagno con gli occhi pieni di lacrime: si evitavano, ma entrambi piangevano di nascosto, entrambi con famiglie colpite dalla guerra, entrambi con quella pesante sensazione di impotenza. Ed entrambi, lontani da casa, soffrivano.
Sr. Savina Majorana, Italia