Dal 1936 condividono il carisma dell’Istituto. E adesso “Mondo e Missione” diventa anche la loro rivista. Le Missionarie dell’Immacolata raccontate dalla superiora generale suor Antonella Tovaglieri
Sono novecento e provengono da otto diversi Paesi del mondo. In comune con i missionari del Pime – oltre a un pezzo importante di storia – hanno lo stesso desiderio di partire per portare il Vangelo anche nelle periferie più lontane del mondo. E spesso là si ritrovano anche a lavorare insieme, pur seguendo ciascuno il proprio stile. Perché allora non provare a raccontare sulle pagine della stessa rivista il cammino del Pime e quello delle Missionarie dell’Immacolata?
È la nuova sfida che comincia per Mondo e Missione, che da questo numero raccoglie l’eredità della rivista MdI, il bimestrale che per anni ha raccontato a famiglie, amici e sostenitori la vita quotidiana delle suore dell’Istituto nato nel 1936 proprio nel solco dell’esperienza del Pime. D’ora in poi anche le loro storie e le loro iniziative di animazione troveranno casa stabilmente qui su Mondo e Missione e siamo convinti che rappresenteranno una ricchezza in più per tutti i nostri lettori. Ma chi sono oggi le Missionarie dell’Immacolata? E che cosa rende unico il loro modo di vivere il carisma del Pime? Originaria di Busto Arsizio, suor Antonella Tovaglieri dal 2018 è la superiora generale dell’Istituto: è a lei che abbiamo chiesto di presentarci la sua famiglia religiosa all’inizio di questa strada che ci apprestiamo a percorrere insieme.
Suor Antonella, come è stato il suo incontro con le Missionarie dell’Immacolata?
«Un giorno mi è venuto tra le mani un opuscolo, c’era una foto di alcune missionarie che annunciavano il Vangelo di villaggio in villaggio. Ad attrarre il mio cuore è stato qualcosa di non facilmente descrivibile: ho sentito un desiderio interiore di fare lo stesso. Dopo molti anni e con carismatica chiarezza posso dire che il mio sguardo si era fissato su Gesù, apostolo del Padre, instancabile seminatore nel campo senza confini del mondo, seme che muore sull’albero della Croce per dare la vita. E anche adesso che – insieme ad altre sorelle – mi trovo a guidare la nostra famiglia missionaria, è sempre l’attrazione di quel particolare volto di Gesù ad accompagnarmi e a spingermi a continuare la sua missione, senza calcoli, con fiduciosa speranza e senza esclusioni».
Lei ha vissuto come missionaria in Papua Nuova Guinea. Che cosa le resta oggi di quella esperienza?
«Ho trascorso alcuni anni sull’isola di Kiriwila, la più grande del gruppo delle Trobriands. La città più vicina dista venti ore di barca. Una vera scuola di vita: i lunghi viaggi in mare, nel silenzio e a contatto con la natura, hanno educato il mio cuore e la mia mente alla riflessione, alla preghiera, alla contemplazione. Non solo; l’oceano per me è simbolo del cuore dell’uomo: così profondo e così misterioso, porta con sé le domande sul senso dell’esistenza. A questo cuore inquieto il Padre mostra tutta la sua passione. Anche quello di Dio è un cuore inquieto, finché tutti siano salvi. Ed è ciò che mi ha convinta a rimanere laggiù… Poi lo stile di vita semplice mi ha educata e provocata ad avere uno sguardo contemplativo che accoglie la presenza di Dio nella vita della gente, nella realtà. In particolare, un valore che ho imparato e di cui oggi faccio tesoro e mi aiuta nella responsabilità che mi è affidata è quello della collaborazione e della condivisione. Il papuano non pensa mai da solo e non può pensare solo a se stesso; condivide con gli altri tutto ciò che è e che ha. Ed è un insegnamento fondamentale per la responsabilità che mi è stata affidata».
Quali sono le frontiere missionarie dove oggi la presenza di una donna consacrata è maggiormente preziosa? Quali porte riesce ad aprire con maggiore facilità rispetto a un sacerdote o anche a un missionario laico?
«Credo che una sia la frontiera del dialogo interreligioso. In alcuni contesti – specialmente musulmani ma non solo – una consacrata può arrivare dove l’uomo non è ammesso. Entra nelle case, incontra le donne, dialoga con loro e si fa presenza di un Dio che accoglie senza volere nulla in cambio. La donna, portata per natura a prendersi cura della vita fragile, sa mettersi accanto alle situazioni più delicate, accompagnandole con la discrezione di una madre che orienta ma non invade gli spazi altrui. Un’altra frontiera è quella dell’incontro: oggi, in tante situazioni di solitudine, la donna consacrata è chiamata a farsi sorella di chi è solo. L’ascolto, l’intuizione e l’accoglienza sono caratteristiche femminili che coltiviamo nella vita spirituale, come perle preziose in un mondo spesso incapace di intuire i desideri più profondi delle persone».
Nella vostra spiritualità è centrale l’icona del seminatore: dove nel mondo di oggi c’è più urgenza di gettare questo seme?
«Gesù continua a seminare, perché tutti hanno bisogno di conoscere la Parola di Dio e di trasformare così la propria vita. Ci sentiamo chiamate a continuare questa semina, andando incontro a tutti attraverso la nostra testimonianza, privilegiando i più lontani da Cristo, quanti ancora non lo conoscono. Seguendo Gesù seminatore, il nostro Capitolo generale ci ha chiesto di osare nuove aperture e impegni qualificati, di assumere con coraggio ministeri nuovi e sfidanti, nelle periferie umane e in mezzo a nuove povertà non ancora raggiunte da altre istituzioni, lavorando anche in collaborazione con altre forze».
Un tratto forte delle vostre comunità è l’internazionalità: quali ricchezze e quali fatiche da questa esperienza?
«Proveniamo da Paesi diversi e abbiamo età diverse; per questo parliamo di internazionalità, interculturalità e intergenerazionalità. Queste realtà esigono un’apertura permanente al dialogo e all’ascolto, passando attraverso un processo di conversione, per realizzare la comunione fraterna. Si tratta di un apprendimento costante, per realizzare un incontro arricchente, mettendo in gioco i valori della propria cultura e lasciandosi arricchire con gratitudine dai valori delle altre. In questo modo l’internazionalità e l’interculturalità diventano un dono per noi e un segno profetico per il mondo di oggi. Certo, nonostante questi aspetti positivi, nelle nostre comunità si vivono anche fatiche, quando non sappiamo riconoscere gli aspetti di limite delle culture o alimentiamo pregiudizi. Lingue e abitudini diverse possono diventare fonte di tensione e bloccare la capacità di dialogo e di comprensione reciproca. È necessario dunque promuovere un grande sforzo e avere profonde motivazioni per accoglierci nelle nostre diversità».
Chi sono le ragazze che scelgono oggi di entrare nel vostro istituto? Che cosa la colpisce di più incontrandole?
«Provengono da una grande varietà di ambienti sociali e culturali: se guardiamo all’età e alla preparazione, in alcuni contesti sono giovani o adulte con una formazione universitaria e lavorativa, in altri sono ragazze più giovani, alla fine degli studi secondari. Alcune provengono da zone di recente evangelizzazione, altre da Paesi di antica cristianità e con un impegno ecclesiale. Di queste giovani mi colpisce sempre il coraggio di scegliere questa vita in un contesto che spesso non le sostiene. Per favorire da subito una formazione al carisma e allo specifico della nostra scelta di vita, l’ultimo Capitolo generale ha chiesto di intraprendere l’esperienza di una formazione iniziale comune nel periodo del noviziato, tappa formativa privilegiata per la preparazione alla consacrazione missionaria. Stiamo preparandoci, dunque, a costituire un noviziato internazionale, a Roma, a cui parteciperanno giovani provenienti dalle varie missioni, seguite da un’équipe anch’essa internazionale. Crediamo nella positività di questa proposta per aiutare le nostre giovani a crescere nel senso di appartenenza ad un’unica famiglia missionaria».
Il Paese da cui proviene oggi oltre la metà delle Missionarie dell’Immacolata è l’India. Che cosa rappresenta per voi questa realtà? E che cosa stanno donando le suore indiane oggi alla Chiesa intera?
«Sì, la maggior parte delle suore della nostra congregazione sono indiane. Questa “messe abbondante” è il frutto della testimonianza di vita delle “pioniere” del nostro istituto. L’India, che ha ricevuto la fede dai missionari, ora invia missionari, messaggeri dello stesso carisma in altri Paesi. In India il nostro apostolato missionario è costituito da attività pastorali, opere educative e di sviluppo sociale, impegno nel dialogo interreligioso. Grazie al suo profondo background interculturale e interreligioso, l’India ci offre la possibilità di essere missionarie ad gentes e di trasmettere – in modo particolare ai giovani – la spinta missionaria; questo avviene attraverso forme diverse e originali di animazione missionaria. L’India di oggi presenta anche nuove forme di povertà e, come missionarie, cerchiamo di rispondere a queste esigenze arrivando alle frontiere più lontane, attuando uno stile di vita semplice e sobrio. Le nostre suore, inoltre, curano la formazione alla fede della gente, soprattutto nelle parrocchie, contribuendo alla missione evangelizzatrice della Chiesa».
Già da alcuni anni voi Missionarie dell’Immacolata avete riconosciuto l’Italia come luogo di missione. Perché questa scelta da parte di un istituto che ha come carisma l’ad gentes? E quale tipo di nuove presenze state promuovendo nel contesto italiano?
«Per noi l’Italia è anzitutto “luogo di destinazione missionaria” per le suore non italiane. Vogliamo costituire comunità internazionali, che esprimano il volto del nostro Istituto, ovunque siamo presenti, come segno forte della novità del Vangelo e come espressione della Chiesa per sua natura missionaria, che invia da ogni luogo per ogni luogo. Anche l’Italia, dunque, riceve missionari, per mettere il dono delle nostre diversità a servizio dell’unica missione. Quanto all’espressione “Italia come luogo di missione” vorrei fare una precisazione: l’Italia, come altri Paesi nei quali siamo presenti, non è una realtà ad gentes cioè con una popolazione a maggioranza appartenente ad altre religioni; come il resto dell’Europa, però, la società italiana è secolarizzata e interessata da profondi cambiamenti sociali che la rendono luogo di missione e, in situazioni sempre più frequenti, anche luogo di primo annuncio del Vangelo. La nostra presenza si orienta, dunque, all’animazione missionaria della Chiesa italiana, con iniziative insieme al Pime e con le parrocchie, per sensibilizzare i cristiani a farsi carico delle situazioni ad gentes – in forte aumento anche qui – e dell’invio di missionari ad extra, cioè in altri Paesi. Inoltre, ci inseriamo tra le genti del mondo presenti qui in Italia curando uno stile femminile di prossimità, di azione e di interesse concreto, avvicinando persone e gruppi di altre religioni: ad esempio con il paziente aiuto nello studio e nell’inserimento di giovani cinesi, l’accompagnamento al battesimo di catecumeni provenienti da tanti Paesi, l’accompagnamento dei carcerati e dei malati. Ultimamente abbiamo iniziato una presenza a Pioltello, nella periferia di Milano, in un contesto totalmente multietnico e multireligioso. Soprattutto vogliamo contribuire a risvegliare nella Chiesa locale dinamiche missionarie; vogliamo guardarci attorno e lasciarci coinvolgere dalle situazioni nelle quali Cristo, anche qui, aspetta di essere incontrato per la prima volta».
Al Sinodo per l’Amazzonia è emerso con forza il tema della donna nella Chiesa: che cosa dice l’esperienza della missione su questo tema?
«Il ruolo della donna in Amazzonia è di fondamentale importanza nella Chiesa. Spesso sono le donne le mediatrici e i ponti che favoriscono l’incontro tra le diverse realtà. Custodiscono la vita e stanno dalla parte dei più deboli. Portano avanti l’evangelizzazione spicciola, fatta di ascolto e di vicinanza al prossimo in difficoltà. Sono molte le donne (laiche e religiose) che nelle periferie più lontane delle grandi città e nelle comunità lungo i fiumi sono catechiste, coordinano le piccole comunità ecclesiali, celebrano la Parola di Dio alla domenica dove non c’è la possibilità di avere la Messa, per la carenza di sacerdoti. Nel Sinodo si è parlato molto di ministeri e del riconoscimento dell’importanza del ruolo della donna anche in ambito ecclesiale. Si è valutata la possibilità che le donne possano avere “voce attiva” anche in alcuni organi decisionali. In Brasile spesso abbiamo conosciuto donne che lottano e lavorano per costruire una comunità e una Chiesa viva e ridonare speranza a chi ormai sembra averla perduta. Affidare ufficialmente dei ministeri alle donne e riconoscere loro un ruolo importante significherebbe solo riconoscere ciò che già compiono ogni giorno, ormai da anni».
Le Missionarie dell’Immacolata e i missionari del Pime: come avviene oggi la collaborazione tra le Direzioni generali dei due Istituti?
«Questa collaborazione è sempre stata presente nella storia dei nostri Istituti, ma oggi ha preso una forma forse più sistematica. Oltre ai diversi momenti informali, ci troviamo un paio di volte all’anno per riflettere insieme su tematiche comuni e modalità di collaborazione nei diversi Paesi dove siamo presenti. Le delibere delle Assemblee capitolari dei nostri Istituti ci spronano a confrontarci sulle scelte che ciascuno fa per comprendere meglio come incarnare nella Chiesa e nel mondo il proprio carisma. Da questi momenti di conoscenza, confronto e condivisione nascono idee nuove e anche la possibilità di dar vita a progetti comuni».
Che cosa si aspetta dalla nuova collaborazione che nasce a partire da questo numero su Mondo e Missione?
«Mondo e Missione è uno strumento di animazione missionaria. E l’animazione missionaria è una delle priorità dei nostri Istituti affinché ogni comunità ecclesiale diventi protagonista dell’evangelizzazione, fuori e dentro il suo territorio. Mi aspetto che, attraverso questo strumento, sappiamo trasmettere insieme la bellezza della nostra vocazione missionaria e dar voce alle esperienze e alle storie di cui siamo testimoni nei Paesi dove lavoriamo, affinché si rinnovi lo slancio missionario ad gentes».
Giorgio Bernardelli
Mondo e Missione – gennaio 2020