Per otto anni è stata nel Nord del Camerun, in due diverse missioni. E ora si accinge a ricominciare da Yaoundé. Pronta a scoprire sempre qualcosa di nuovo anche di sé. La testimonianza di suor Lucia Cavallo.

«La missione ti sorprende, ti mette sempre in gioco, ti fa scoprire realtà nuove, ma anche qualcosa di nuovo dentro di te».

Ne è convinta suor Lucia Cavallo, missionaria dell’Immacolata di 46 anni, originaria di Villa di Briano, in provincia di Caserta. Dopo otto anni trascorsi nel Nord del Camerun, ora suor Lucia si appresta a tornare nel Paese africano per cominciare una nuova “avventura” nella capitale Yaoundé. Dalla savana alla città, dalle sfide di una delle regioni più povere e arretrate del Paese a quelle di una metropoli dinamica e in continua crescita, ma segnata da profonde contraddizioni e diseguaglianze.

«Il ritorno nella capitale significa confrontarsi con un contesto completamento diverso, anche culturalmente. E con diverse povertà, come quelle dei ragazzi di strada. Ora mi accingo a ricominciare, cercando di capire innanzitutto dove mi trovo. Ma questa è una delle cose più belle della missione: ricominciare continuamente!».
Non è facile. Lo sa bene suor Lucia: «Quando stai bene non vorresti cambiare. Ma stare troppo a lungo in un posto ha anche dei rischi: ad esempio quello di sviluppare un senso di possesso. Ti senti un po’ “padrone”. E invece non devi mai dimenticare di essere sempre al servizio e in cammino. Questo è rigenerante. E ti permette di fare altre belle esperienze».

Come quelle che suor Lucia ha vissuto nel Nord del Camerun, nella diocesi di Garoua, prima a Djalingo, dal 2014 al 2017, poi a Bibemi sino a pochi mesi fa; con le ragazze e con i giovani. Quella di Djalingo, periferia sud di Garoua, è una missione “storica” per le missionarie dell’Immacolata, che vi sono giunte quasi 25 anni fa. Poi, con l’arrivo dei fidei donum dell’arcidiocesi di Milano, quello che era un “settore” è diventata una parrocchia, intitolata a San Benedetto. L’attenzione delle religiose, tuttavia, è sempre rimasta focalizzata sulle ragazze, prima in maniera molto spontanea, poi più strutturata. Oggi il Centro di formazione femminile offre corsi di tre anni: un’opportunità unica di studio e di crescita per circa 150 ragazze di 14/15 anni, una sessantina delle quali vive nell’internato.

«Lavorare con e per loro – racconta suor Lucia, che è stata la direttrice del Centro – significa immergersi totalmente in una sfida educativa che va oltre l’apprendimento di nozioni e competenze. Significa condividere un cammino che le aiuta a diventare donne, più consapevoli di loro stesse e dei loro diritti, più autonome e meno sottomesse all’uomo, in una società che è ancora fortemente maschilista». Non tutti apprezzano, anzi. Certe famiglie, ma soprattutto molti padri sono restii a mandare le loro figlie nel Centro delle suore. Perché – sostengono – diventano “ribelli”. «In realtà – spiega suor Lucia – si rendono conto di avere talenti e capacità. E anche diritti e libertà. In questa regione, le ragazze vengono escluse dai percorsi educativi molto presto, perché si ritiene che siano destinate a sposarsi il prima possibile. I genitori non investono più di tanto sulle figlie perché poi apparterranno alla famiglia del marito. Semmai cercano di trarre qualche vantaggio dalla dote. Quindi, prima si sposano, meglio è».

La grave arretratezza anche culturale di questa regione continua a penalizzare pesantemente le femmine, che sono relegate a ruoli domestici, familiari e di lavoro nei campi. Tutti compiti per i quali molti continuano a ritenere che non servano istruzione e competenze. Inoltre, non c’è molto dialogo in famiglia: a volte ci sono problemi economici gravi ma anche casi di maltrattamenti.

«Quello che proponiamo nel nostro Centro sono corsi di francese, visto che la maggior parte delle ragazze parla solo il fufuldé, la lingua locale. Ma anche un po’ di inglese, matematica, economia domestica, taglio e cucito e informatica. Insomma, cerchiamo di coniugare competenze più “tradizionali” con materie più “moderne”. Perché anche nei villaggi più remoti, tutti hanno il cellulare, e alcune conoscenze di base possono essere utili anche per gestire piccole attività di economia informale».

Le ragazze apprezzano molto questa occasione di studio e di vita. A volte, quando la famiglia non le sostiene, loro stesse coltivano un piccolo campo per poter sopravvivere e pagare la retta di iscrizione, una somma poco più che simbolica, ma che obbliga ciascuno a fare la propria parte e ad assumersi le proprie responsabilità. Spesso sono i parroci della zona a segnalare le ragazze, specialmente quelle che vivono nei villaggi più lontani. Per loro, studiare al Centro, ma anche vivere in una realtà diversa da quella del villaggio è un’esperienza di crescita straordinaria. Inoltre, il Centro accoglie ragazze di diverse etnie e culture: imparano a vivere insieme, a gestire nuovi spazi di libertà e a lavorare su se stesse, sui sentimenti e l’affettività. «Per me è stata un’esperienza bellissima! – esclama suor Lucia -. In tre anni le vedi proprio cambiare. La cosa più bella e importante è l’accompagnamento umano, al di là dell’istruzione o della preparazione che si offrono attraverso i corsi. Stando con loro tutto il giorno, tutti i giorni, ti rendi conto che il cammino che fanno nella relazione è spesso sorprendente e straordinario. Ti raccontano la loro vita, i loro problemi, le sfide e le speranze. Questo ti spinge a investire davvero tutte le tue energie e il tuo essere nell’ascolto, nel trovare soluzioni, nel farle crescere. O semplicemente nello stare loro accanto.

Ho scoperto davvero cosa vuol dire essere una mamma, una sorella. Sei lì per loro. Se riesci un po’ a capire il loro mondo, si creano relazioni bellissime. Ci vuole tempo, ma sono vere e sincere. Un’esperienza umana straordinaria».

Poi, nel 2017, suor Lucia vive il suo primo grande cambiamento. Da Djalingo viene trasferita a Bibemi, un po’ più a Nord, in una parrocchia che “copre” 150 villaggi. Qui comincia a occuparsi dei giovani, maschi e femmine. Con tutte le problematiche legate sia all’istruzione molto carente, sia alla difficoltà di trovare un lavoro e di costruirsi un futuro. «A Bibemi – spiega suor Lucia – mi sono occupata di pastorale giovanile. In parrocchia avevamo una sala per le ripetizioni scolastiche, frequentate ogni giorno da un centinaio di ragazzi. Il livello di istruzione è molto basso e anche qui non sempre i genitori capiscono l’importanza della scuola. I ragazzi però si impegnano e questo ci incoraggia ad andare avanti».

Alcuni di quelli che frequentavano la parrocchia come studenti, ora sono diventati insegnanti: «Quelli che abbiamo aiutato negli studi, ora collaborano con noi nell’aiutare i loro “fratelli minori”», commenta suor Lucia che, negli scorsi mesi, ha dovuto confrontarsi – come tutti – con le chiusure imposte dalla pandemia di Coronavirus. A un certo punto, pareva che il Camerun fosse uno dei Paesi più colpiti dell’Africa specialmente nelle città del Sud, che erano, del resto, le uniche in cui era possibile fare i tamponi (seppure molto limitati).

«Qui in Camerun, il governo ha cercato di supplire alla chiusura delle scuole, trasmettendo le lezioni via radio e televisione – spiega la missionaria -. Tuttavia, non tutti erano allo stesso punto del programma, e non tutti avevano accesso a radio e tivù. Anche perché, in una zona come quella di Bibemi, e a maggior ragione nei villaggi, la corrente è veramente irregolare».

Anche le attività pastorali ne hanno risentito, ma in un modo o nell’altro sono state portate avanti. Negli ultimi anni, si è molto riflettuto e ci si è confrontati in particolare sue due temi: quello dell’amicizia e quello della “casa comune”.
«Il Nord del Camerun è una regione in cui sono presenti molte etnie e diverse religioni: cristiani di varie confessioni, musulmani e seguaci delle religioni africane. Di base, c’è una buona convivenza tra tutti. Ma è importante promuovere la conoscenza reciproca per evitare conflitti o radicalizzazioni, come succede più a Nord».

Altro grande tema è quello ispirato dall’Enciclica Laudato Si’ di Papa Francesco, che anche in questa terra spesso segnata da gravi siccità o violente inondazioni pone questioni di grande attualità e urgenza. «Si tratta di prendersi cura di noi stessi e dell’ambiente in cui viviamo».

A proposito di cura, a Bibemi le missionarie dell’Immacolata – attualmente un’indiana e due bangladesi – si occupano anche del dispensario della parrocchia che è diventato un punto di riferimento importante per la popolazione. «A Bibemi c’è un ospedale statale, ma offre servizi scadenti – spiega suor Lucia che ha seguito i lavori di costruzione del nuovo dispensario che si sono conclusi un anno fa -. La gente veniva nella nostra farmacia a comprare le medicine. Facevamo un servizio piccolo ma buono. Che continua adesso nel dispensario, con migliori strutture e più mezzi, ma soprattutto con la stessa attenzione delle sorelle a ricevere i malati e le loro famiglie in maniera più accogliente. Uno degli obiettivi di questa comunità è proprio quello di occuparsi della salute per fare promozione e sviluppo. Un’at­tenzione particolare è rivolta soprattutto alle donne in gravidanza, con cui si cerca di fare un cammino anche educativo, oltre che igienico-sanitario».

Sono tanti segni di una presenza preziosa che però ha nel cuore l’elemento imprescindibile dell’annuncio.

«“Essi partirono, e predicarono dappertutto, mentre il Signore operava, insieme con loro!”.

Quante volte mi vengono in mente queste parole! – riflette suor Lucia -. Partire e annunciare la speranza che è Gesù: questa è missione! Sapere che non siamo soli, ma Lui è con noi, e opera nella nostra vita, e in quella degli altri. È Lui che libera e che guarisce. Ho scoperto, con gioia e stupore, che Cristo risorto è nel volto delle persone che incontro, e vorrei che altri lo incontrassero, in me».

di Anna Pozzi, Mondo e Missione n. 9/2020

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