Nell’articolo precedente dedicato al Capitolo IV dell’enciclica Laudato Sì presentammo tre possibili passaggi per la lettura dello stesso documento, tutti riconducibili alla Dottrina Sociale della Chiesa. In questo nuovo e piccolo contributo vorremmo richiamare l’attenzione sul secondo dei punti proposti: “l’uomo come essere in relazione”.
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Per comprendere totalmente il significato di questa espressione è necessario attingere all’acqua di quel pozzo che è la Sacra Scrittura. L’Antico Testamento e la storia del Popolo d’Israele suggeriscono una visione dell’uomo quale “essere in relazione”. Se pensiamo al mistero grande che è la vita, a quel miracolo che dall’unione di due corpi se ne genera uno, possiamo capire la potenza di questa affermazione.
L’affacciarsi di una nuova vita a questo pianeta non avviene per pura e razionale scelta della stessa, ma perché qualcuno ha contribuito al suo ingresso nel mondo. Per questo è possibile concludere che la vita umana è anzitutto vita ricevuta e nel suo essere ricevuta è dunque vita in relazione.
L’essere umano non si autodetermina, ma si caratterizza quale “animale sociale” che necessita della presenza e della cura dei suoi simili per vivere, e ancor prima esistere. I testi biblici dell’Antico Testamento ripercorrono nelle proprie pagine questo mistero dell’uomo quale “essere in relazione”.
La Genesi è il primo libro dell’Antico Testamento che esprime il mistero della vita come sistema di relazioni fra esseri viventi i quali, entrando nel mondo, sono chiamati alla responsabilità di custodirsi. Si comprende così come questa interdipendenza, concetto che orienta tutta la riflessione della Laudato Sì, appartenga al mondo sin dalla sua origine (Genesi). Attraverso le pagine del primo testo del Pentateuco il lettore è chiamato ad immergersi in un’interpretazione del Mistero della Creazione e dell’uomo (Ish). Fin dai primi versetti si coglie come nel fare il suo ingresso nel mondo ogni essere vivente instauri una relazione con tutto quello che lo circonda, una relazione che possiamo definire interdipendenza. Ogni essere vivente è infatti in equilibrio con quanto vive al suo fianco (ricordiamo che il fianco, il lato sarà anche la ferita da cui viene creata la donna, Isha). L’essere umano appartiene a questo stesso equilibrio, a questa armonia. E’ proprio all’uomo che il testo biblico affida il compito della cura del giardino, come si legge in Gen 2,15: «Il Signore Dio prese l’uomo e lo pose nel giardino di Eden, perché lo coltivasse e lo custodisse». E’ questa la vocazione dell’uomo, essere ospite e custode: ospite di un pianeta, una terra, una realtà che ha anzitutto ricevuto; custode di quanto gli vive a fianco, anzitutto custode della vita dell’altro. E’ questo il fine di ogni essere umano: assicurarsi anzitutto che l’altro da me abbia la vita garantita.
Ma come riconoscere l’esistenza di ciò che è “altro da me” e che mi chiama a spendermi per la sua stessa custodia? Il testo della Creazione è ricco di nomi che l’uomo attribuisce a quanto Dio crea: il DARE un NOME è il processo che permette di riconoscere l’esistenza di qualcosa/qualcuno, dargli identità e sentirmi chiamato alla sua custodia, per garantirne la sopravvivenza. Questo passaggio del “dare nome per essere responsabili di custodire quanto assume una propria identità” è un’interpretazione innovativa tracciata da André Wénin, biblista e teologo belga appartenente alla Scuola di Lovanio, nel suo testo “Da Adamo ad Abramo o l’errare dell’uomo” (A. Wénin, “Da Adamo ad Abramo o l’errare dell’uomo”, EDB, 2008). Dare nome permette di coglierne l’alterità di ciò che riconosco esistente, di attribuirgli la sua propria identità e il suo diritto all’esistenza: questo significa essere custodi. Questa è la chiamata di ciascuno: riconoscere, dare nome e garantirne la sua stessa sopravvivenza.
Non solo la Scrittura, ma anche la tradizione ci ricorda che “l’uomo è costitutivamente un essere in relazione”. La storia stessa del Popolo di Israele, dalla vita nomade degli inizi alla sua sedentarizzazione, è un intreccio di relazioni parentali che progrediscono e mutano nel corso dei secoli nel tentativo di fare della vita comunitaria la propria struttura sociale.
E’ a questo popolo d’Israele, costituitosi comunità, che Dio sceglie di rivelarsi. All’uomo, quale essere costitutivamente relazionale, Dio non poteva che rivelarsi come il Dio della relazione, della prossimità. Non è un caso che nel libro dell’Esodo, a Mosè impietrito dinanzi al roveto ardente, Dio si rivela come “Ehyeh Asher Ehyeh”, più comunemente “Io Sono Colui che Sono”. Ai fini del percorso che stiamo tracciando non importa tanto al lettore conoscere la traduzione corretta di questa auto-rivelazione, ma quel che importa è cogliere l’inaudita intenzionalità di Dio nel compierla, perché al popolo ebraico Jhaweh stesso sceglie di rivelarsi come presenza prossima, salvifica e operante nella sua stessa storia. Il fatto inaudito di questa auto-rivelazione (che anticipa anche la ricerca della definizione filosofica più appropriata del testo ebraico traslitterato) si coglie nella personalità di un Dio che si presenta quale Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe. Ed è proprio nel definirsi legato a queste personalità storiche che il Creatore si rivela alla sua creatura anzitutto come presenza paterna che agisce nella sua storia, nella vita dei suoi avi e in quella dei suoi discendenti. Dio è il “Dio con te”, che di te si prende cura. Proprio a modello del cuore di Dio, anche l’uomo è chiamato alla responsabilità per l’altro (S. Bastianel, 2010).
E’ infatti questa vocazione alla responsabilità per l’altro da me che ci rende “a somiglianza ed immagine di Dio” (Gen 1, 26) e che ci chiama ad aprire gli occhi su quanto, nel nostro pianeta, non stiamo custodendo. E’ questa indifferenza per tutto quel che ci circonda, questa cultura dello scarto – come dice Papa Francesco – che ci ha condotti a dimenticare non solo ogni essere vivente, ma anzitutto l’uomo. Il sistema economico e la crisi ambientale che imperano hanno creato un sistema di diseguaglianze sociali che non può più lasciarci indifferenti. Nel messaggio per la Giornata Mondiale della Pace 2016 Papa Bergoglio già metteva in guardia dal pericolo di agire guidati da un principio opposto a questa cura per l’altro e che si sintetizza nella globalizzazione dell’indifferenza, quale indifferenza della società umana verso Dio, verso il prossimo e verso il creato.
Già a Lampedusa l’8 Luglio 2013 nel Primo anno del suo pontificato Francesco nella sua omelia di denuncia ricordava le parole con cui Dio si rivolge a Caino: “la voce del sangue di tuo fratello grida a me…” (Gen 4,10).
E’ lo stesso sangue che grida oggi in ogni parte del mondo, ad ogni latitudine e longitudine. E’ il sangue di quei poveri, degli ultimi, di coloro che abbiamo dimenticato proprio per l’avanzare della cultura dello scarto.
L’essere umano è il primo chiamato a custodire il suo simile, soprattutto se lo stesso riversa in condizioni di fragilità.
Per questo, l’ultimo passaggio della nostra breve analisi sarà il richiamo al “privilegio del debole”. Quell’opzione preferenziale per i poveri, che deve essere il motore dell’azione pastorale di ogni comunità.
sr. Anna Marini – Italia, Guinea Bissau