Alzi la mano chi non usa WhatsApp, chi non posta foto su Instagram e chi non utilizza Facebook o Twitter per condividere pezzi della sua giornata e dei suoi pensieri. A questi pochi sopravvissuti all’invasione social forse non interesserà questo articolo.
A tutti gli altri, sull’onda dello scandalo di Cambridge Analytica, ecco qualche spunto per tornare a riflettere su questo mondo digitale che, nonostante tutto, siamo chiamati ad abitare. Da utenti e non da usati.
«Noi connettiamo le persone. Questo può essere positivo se usato in modo positivo. Magari qualcuno trova l’amore. Forse qualcuno salva la vita di qualcuno sull’orlo del suicidio. E noi connettiamo ancora più persone. Può diventare negativo se usato in modo negativo. Magari costa la vita a qualcuno che entra in contatto con dei bulli. Magari qualcuno muore in un attacco terroristico organizzato grazie ai nostri strumenti. E noi connettiamo ancora le persone. […] La dura verità è che crediamo così tanto nella necessità di connettere persone che tutto quello che ci permette di farlo è positivo de facto»
Sono queste le parole che Boz (Andrew Bosworth, vicepresidente di Facebook) postava a seguito del suicidio di un ragazzo, ripreso e pubblicato in una diretta Facebook nel 2016. Questo post è stato ripescato nei giorni scorsi, mettendo nuova benzina sul fuoco degli ultimi scandali legati all’impero di Zuckerberg. L’articolo del Corriere della Sera che le ha riportate, conferma che fu una provocazione, ma ben delinea le vaste e differenti conseguenze del complesso mondo social.
Ne siamo tutti ormai consapevoli: i nostri dati possono entrare in possesso di tutti. C’è chi, come se mai lo avesse saputo, grida allo scandalo e chi chiede nuove regole. Nel panico generale, c’è anche chi cerca la causa che ha permesso negli anni la creazione di un immenso e fragilissimo vaso di pandora. Negli Stati Uniti, scrive Franklin Foer:
«L’elemento che determina il mondo digitale è il fatto che il web è nato durante l’ondata libertaria degli anni novanta. Privatizzando la rete, sottraendola alle agenzie governative che l’avevano gestita, abbiamo abbandonato il pensiero civico. Invece di trattare la rete come il sistema finanziario, l’aviazione o l’agricoltura, abbiamo evitato di creare delle regole solide che ci avrebbero garantito la sicurezza e avrebbero fatto rispettare i valori costituzionali del paese.
Gli attivisti che portano avanti questo dibattito conoscono da tempo questa debolezza, e ora i pericoli sono probabilmente chiari anche alla maggior parte degli utenti di Facebook. Ma una cosa è sapere cos’è lo sfruttamento dei dati, un’altra è vedere chiaramente come i nostri dati possono essere trasformati in un’arma contro noi stessi.
[…] Se facciamo un passo indietro, ce ne rendiamo conto chiaramente: il modello economico di Facebook si fonda sullo sfruttamento della privacy. L’azienda spinge i suoi utenti a condividere sempre più informazioni personali (ciò che che Facebook ha definito “trasparenza radicale”), poi li sorveglia per capire come farli rimanere più a lungo sul sito, per poi mostrargli annunci pubblicitari adatti al loro profilo.
[…] A quanto pare Facebook non ha avuto scrupoli a permettere l’accesso ai nostri dati a ciarlatani che lavoravano per conto di Cambridge Analytica, senza spendere neppure un minuto di tempo per capire di chi si trattasse o per preoccuparsi di quali secondi fini avessero nel raccogliere così tante informazioni sensibili.
Questo mondo c’è, e ci invita ad abitarlo. Cerchiamo di capire come farlo in modo corretto e giusto. E se a qualcuno di voi venisse in mente di abbandonarlo per sempre, ecco la simpatica esperienza di un giornalista de Il Sole 24 ore. Dopo una riflessione ha scelto di cancellarsi dai social e scaricare i dati che, in diversi anni, vi erano stati accumulati:
«Nessuno, non mia moglie, non i miei genitori o i miei più cari amici hanno mai avuto una panoramica così dettagliata della mia vita. Neanche io stesso, perché molte delle piccole cose quotidiane che ho fatto, dopo anni, non le ricordavo più. Se qualcun altro scaricasse questi dati a mia insaputa (la procedura è abbastanza semplice e nel mio caso non ha richiesto autenticazione a due fattori, che peraltro avevo attivato sul mio profilo) avrebbe a disposizione più informazioni di qualsiasi ente pubblico, dal ministero dell’Interno all’autorità giudiziaria sino al mio ente previdenziale, il mio plesso scolastico di origine e la mia parrocchia. Forse solo Google sa più cose di me.
[…] La mia Timeline, il mio “muro” è un vero incubo però, perché contiene qualsiasi cosa abbia scritto o cliccato o condiviso: avendo collegato il mio account Twitter e Instagram a Facebook ci sono anche tutte le cose che ho scritto, fotografato o condiviso su quegli altri due social (Instagram come Whatsapp è di proprietà di Facebook). È un dato grezzo, su cui passare sofisticati filtri basati sulle mie preferenze e su chiavi semantiche per “capire” gli stati d’animo: Facebook vende agli inserzionisti momenti psicologicamente importanti (ad esempio: obeso che si vuole mettere a dieta, adolescente in difficoltà a scuola, madre tornata single) per massimizzare i ritorni pubblicitari.
[…] Alla fine dell’analisi dei miei dati, il pezzo della mia vita aperto davanti a me porta alcune considerazioni. Mi sento un escluso: senza Facebook addio alle pagine delle due associazioni culturali di cui faccio parte, la pagine della scuola dei figli, i gruppi di amici delle superiori e dell’università, i gruppi di fotografia (la mia passione), qualche associazione di categoria, le pagine del Comune e del Sindaco. Tutte cose a cui non accederò più. Alcune sono rilevanti, ad esempio per le decisioni di quartiere o magari per votare la prossima volta. E che dire dell’assistenza ai servizi pubblici che passa in via preferenziale dai social? Il nodo da sciogliere è capire se il prezzo da pagare per avere dei servizi siano tutte queste informazioni personali: lo sapevamo tutti cosa volesse dire iscriversi a Facebook (e agli altri servizi), ma non può essere una scusa per non rendersi conto di come stanno le cose oggi. Sono andate molto, forse troppo avanti. Ne vale ancora la pena? Guardando tutto quello che dei soggetti, che non so chi siano, sanno concretamente di me, la risposta è semplice: no.»
Letti e commentati per voi:
A. Dini, Ho chiuso Facebook: ecco cosa Zuckerberg continua a sapere di me; in Il Sole 24 ore, 28 marzo 2018.
M. Pennisi, L’ossessione di Facebook: «Qualcuno può rimetterci la vita, ma noi continuiamo a connettere persone»; in Il Corriere della Sera, 30 marzo 2018.
B. Severgnini, Facebook sa tutto delle nostre vite: perché tocca a noi aprire gli occhi; ne Il Corriere della Sera, 20 marzo 2018.
F. Foer, Internet ha bisogno di nuove regole; ne The Atlantic, 25 marzo 2018 (traduzione a cura di Internazionale).