Il suo nome cinese è Chow Ming Chu, ma tutti in Bangladesh la conoscono come suor Rose. La missionaria dell’Immacolata, originaria di Hong Kong, da due anni lavora a Zirani, una zona periferica a nord-ovest della capitale Dhaka. Un’area industriale costellata di fabbriche del tessile e meta prediletta per molti giovani che lasciano i loro villaggi nelle zone rurali in cerca di lavoro nella grande città. Qui sorge il centro Gesù Lavoratore fondato dai missionari del Pime, una struttura che oggi accoglie 40 ragazze e ragazzi appartenenti alle minoranze religiose in un Paese musulmano per oltre il 90%. La maggior parte proviene dai villaggi tribali: restano con i missionari pochi mesi o qualche anno nel caso delle ragazze, finché non trovano una sistemazione permanente. 

Suor Rose, 59 anni, avendo una formazione da infermiera, si occupa della loro salute: «Mi prendo cura di loro quando sono malati e ogni tanto seguo anche i loro bambini», racconta. Il centro Gesù Lavoratore ospita infatti anche un piccolo asilo per i figli dei lavoratori, mentre padre Gian Paolo Gualzetti, direttore della struttura, ogni giovedì sera tiene un incontro sulla Parola di Dio, cercando di educare e accompagnare i ragazzi nella loro fede.

Suor Rose vive nel centro con altre due missionarie dell’Immacolata. Arrivata in Bangladesh più di 10 anni fa, ha conosciuto il Pime quando era ancora una giovane studentessa a Hong Kong: «Vivevo con la mia famiglia nel quartiere di Lam Tin e la nostra parrocchia era gestita dai missionari verbiti», spiega. «Quando il nostro parroco anziano andò in pensione, arrivò il padre del Pime Giorgio Pasini, che noi in cinese chiamavano padre Sze. Al tempo non avevo mai incontrato una suora, tanto meno una missionaria», continua suor Rose. Le cose cambiarono con l’inizio della scuola secondaria. «Frequentai la scuola di Saint Paul de Chartres, gestita dalle suore ospedaliere di San Paolo, una congregazione francese, ma erano molto severe con noi ragazze per cui non ne ho un bel ricordo». 

Nel frattempo padre Pasini era stato sostituito da padre Piero Zamuner, o padre Sing, come lo chiamavano i cattolici di Hong Kong. «Non so come, ma divenne molto amico di mio padre. Una domenica, mentre stavo andando a Messa, mi fermò per chiedermi: “Signorina, vuoi diventare suora?”. Non capivo perché mi avesse fatto quella domanda, gli sorrisi e corsi in chiesa».

Finite le superiori, suor Rose si iscrisse poi alla scuola per infermiere del Queen Elizabeth Hospital, l’ospedale principale della zona di Kowloon. «Per me fu un periodo molto duro, non solo per l’intensità degli studi e dei tirocini, molti nel turno di notte. Fu anche una sfida per la mia fede perché non potevo andare a Messa tutte le domeniche, e tra i miei compagni c’erano molti gruppi di preghiera protestanti». Dopo due anni, conobbe la Lega delle infermiere cattoliche a Hong Kong, con cui cominciò a organizzare diverse attività come volontaria. «A quel tempo padre Paolo Morlacchi, che noi chiamavamo padre Mok, era il nostro direttore spirituale e poco dopo conobbi suor Antonietta d’Onofrio, suor Do. Era molto attiva, divertente, simpatica e amica di noi infermiere. L’immagine che avevo delle suore cambiò del tutto e cominciai a pensare: “Se posso diventare una suora come lei allora potrei anche pensarci”». Da lì il passo fu breve: dopo il cammino vocazionale a Hong Kong venne la prima professione religiosa, pronunciata a Monza nel 2004, poi nel 2010 quella solenne e infine la destinazione Bangladesh per la missione. «Ho aspettato un anno per il visto e poi, dal 2012, il Bangladesh è diventato la mia nuova casa». Non fu subito facile adattarsi alla nuova cultura, tanto meno imparare il bengalese: «All’inizio girai molto tra le varie missioni e mi fermai solo una volta arrivata a Khulna, con suor Roberta Pignone. Ci ho messo diversi anni prima di iniziare a capire il bengalese perché non sono portata per le lingue, ma le persone qui sono molto gentili e pazienti, cercano sempre di indovinare quello che sto tentando di dire».

Il lavoro al centro di Zirani la tiene impegnata: «I problemi principali sono dati dall’inquinamento, il fiume qui dietro è verde a causa degli scarichi delle fabbriche tessili. I ragazzi presentano quindi allergie, tosse, problemi respiratori, rush cutanei… Negli ultimi tempi è aumentato anche lo stress psicologico perché molti non riescono a trovare lavoro e a mantenere la famiglia. Noi cerchiamo di prendercene cura parlando molto con loro, ma i casi più gravi o urgenti li mandiamo all’ospedale locale, con cui abbiamo un’ottima relazione».

Suor Rose si riferisce all’ospedale Kumudini di Mirzapur, fondato nel 1938 da un imprenditore indù, Ranada Prasad Saha. «Adesso gli ospedali del Bangla­desh sono moderni – spiega suor Rose – ma per i poveri resta troppo costoso trovare bravi medici, tant’è che nei villaggi si usa ancora la medicina trazionale. Ecco perché per noi è importante avere questo legame con la struttura, dove i nostri ragazzi possono ricevere visite di qualità». 

Un legame che ha una lunga storia. La madre di Ranada Prasad Saha morì per un’infezione di tetano quando il figlio aveva sette anni. Poco tempo dopo, quando era ancora un ragazzo, Saha scappò a Calcutta dove si unì al Movimento Swadeshi contro l’occupazione britannica. Quando tornò in quello che non era ancora Bangladesh, ma Pakistan orientale, iniziò a commerciare carbone. In pochi anni riuscì a comprare alcune aziende inglesi locali e a fondare il Kumudini (il nome della mamma), un ospedale gratuito che avrebbe dovuto prendersi cura soprattutto delle donne malate per evitare che altre madri morissero lasciando soli i figli. Dopo anni di attività filantropiche, Saha e suo figlio vennero rapiti dall’esercito pakistano durante la guerra di liberazione del 1971 (da cui nacque l’attuale Bangladesh) e di loro non si sono mai più avute notizie. Ma ancora oggi i nipoti gestiscono il trust che permette di finanziare la struttura sanitaria e altre opere di beneficenza fondate da Saha, come un collegio per ragazze, anch’esso a Mirzapur, a poco più di 50 chilometri da Dhaka. Il nonno era infatti un convinto sostenitore dell’emancipazione femminile, che secondo lui poteva avvenire attraverso l’istruzione e l’assistenza sanitaria. 

Allo stesso modo, il filantropo volle fin da subito che le infermiere dell’ospedale fossero cristiane perché note per la loro competenza e professionalità. Oggi la struttura conta 1.050 posti letto, ma, come spiega suor Snidha delle Associates of Mary Queen of the Apostles, «ogni giorno ci prendiamo cura di migliaia di pazienti, che non pagano il cibo e la permanenza. Una volta potevamo permetterci anche le medicine, ora non più». Suor Snidha sta studiando alla scuola di infermieristica all’interno dell’ospedale. «Molti pazienti ci riconoscono come cristiane proprio attraverso il nostro servizio, apprezzano la nostra serietà e il nostro atteggiamento», dice la religiosa. Il Ku­mu­dini è quindi un esempio concreto di dialogo interreligioso: il direttore è ancora oggi indù, i medici sono musulmani e le infermiere in maggioranza cristiane, con la presenza di qualche bud­­dhi­sta. Padre Gian Paolo viene qui tutti i sabati a celebrare la Messa. «Una ragazza ospite del nostro centro Gesù Lavo­ra­tore studia alla scuola del Kumudini per diventare infermiera», spiega suor Rose. 

Anche diverse tirocinanti dal­l’Asia centrale terminano la loro formazione all’ospedale bengalese. «Oggi ci sono più connessioni con il mondo, anche noi pensiamo alla nostra missione in modo diverso rispetto agli inizi – commenta la religiosa -. I giovani che ospitiamo devono imparare a essere autosufficienti e a prendere in mano la loro vita. Noi cerchiamo di fare del nostro meglio nell’accompagnarli». 

Alessandra De Poli, Mondo e Missione di giugno-luglio 2024

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