In questi mesi una delle nostre comunità ha aderito al progetto Caritas di accoglienza di profughi della guerra in Ucraina. Una sorella racconta la ricca esperienza vissuta e le sfide incontrate.

Una ventata d’ossigeno salutare ha inondato tutta la Chiesa con la creazione del Sinodo, voluto da papa Francesco. Le provocazioni del sinodo che, giunto alla fase continentale, ha scelto di riflettere sull’invito di Isaia ad allargare lo spazio della propria tenda (54,2), hanno sollecitato la nostra comunità di consacrate missionarie ad aderire al progetto della Caritas che prevede l’accoglienza diffusa di persone in fuga dalla guerra in Ucraina.

In realtà una comunità missionaria, come ricorda Papa Francesco, è comunità in uscita. E l’uscita non è solo fisica. È spesso esistenziale. E fare spazio comporta restringere le proprie esigenze per far entrare altri nella propria vita, chiunque abbia bisogno.

Non è stato difficile per la nostra comunità accogliere nel nostro spazio fisico due persone in più perché l’ambiente di una struttura comunitaria è ampio in sé; è stato più faticoso fare spazio nella vita, rubare tempi al nostro esistere per un ascolto cordiale, per una vicinanza comprensiva, per un’empatia verso il dolore e la fatica di chi ha subito traumi, separazioni, lutti.

Anche se il progetto chiedeva alla comunità di offrire alle eventuali ospiti il solo vitto e alloggio, c’era il desiderio di poter andare oltre, di saper percorrere un pezzo di strada insieme, come sorelle universali, come testimoni di Cristo. C’era l’aspettativa di essere in grado, come chiede il santo Padre, di potersi avvicinare alla “carne sofferente di Cristo”, per mostrare il suo volto compassionevole.

L’iniziale desiderio di mettere a proprio agio, di far sentire a casa, si è misurato con alcune sfide. La sfida maggiore riguarda il portare insieme le loro ferite espresse e nascoste. Nel farci presenti, nel semplice ascolto, qualche lacrima può essere asciugata, qualche dolore alleggerito e qualche speranza illuminata. Sul volto dell’ospite allora appare stampata un’espressione di gratitudine. Un’altra sfida è stata quella di generare fiducia, nel rispetto delle regole senza eccessive rigidità, dimostrando interesse alla vita delle ospiti e facendo comprendere che non si è estranee alla loro fatica di vivere in terra straniera.

Le nostre ospiti sono state per la comunità occasione di crescita sotto diversi aspetti: nell’ imparare una “sinergia” nell’offrire aiuto, entrando in azione oltre i ruoli stabiliti all’inizio e facendo un gioco di squadra; nello stesso tempo lasciando che qualcuno tenesse le fila del tutto. La nostra comunità è cresciuta quando ha saputo “inventare” iniziative per intercettare il dolore e il bisogno di vita di queste persone. Grazie alle nostre ospiti, la nostra comunità è più consapevole del grande dono e della straordinaria potenzialità della nostra vita di persone consacrate a Dio e al suo progetto di amore.

Ci siamo inoltre accorte anche del dono insito nella disponibilità all’accoglienza, dono prezioso perché accogliendo l’ospite si accoglie Cristo stesso.

Allargare lo spazio della tenda è sempre una ricchezza: dilata gli orizzonti e, mentre il mondo entra in casa, la casa si illumina di colori universali.

La redazione

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