C’è un gusto a parlare di cose della vita con chi ha una fede differente. Se si ascolta davvero, qualcosa si allarga dentro. Non si tratta di essere d’accordo o meno, ma di fare l’esperienza stessa dell’ascolto e della condivisione, avendo davanti qualcuno che parla della sua esperienza di Dio, di come funzionano le cose “sull’altro versante”.
Noi diciamo… (noi invece…), noi facciamo… (noi invece…), noi crediamo… (noi invece…)…
Non è già un confronto, piuttosto un gusto di aprirsi ad altro, di vedere le cose in maniera differente, tra qualche sussulto gioioso di somiglianza, che spalanca uno sguardo diverso sulla comune umanità, e qualche spontaneo Noi invece, che non ha paura di dirsi diverso.
Che ci sia un dialogo di vita, di opere, spirituale, teologico, si sa. È scritto nei documenti della chiesa. Lo dice il Papa. E in linea di principio qui da noi in Algeria, paese islamico, c’è tutto questo.
Vita come dialogo: vicinato, incontri, mangiare insieme, feste insieme, parlare insieme dell’Algeria e del suo avvenire. In tutto questo ci sono sempre delle parole che possono essere dialogo.
Un barbecue e parliamo della famiglia; una chiacchierata attorno a un tè ed esce il quotidiano; una visita a un malato e si tocca il tema del valore della vita; un viaggio in bus e ci si fanno domande; a matrimoni, a lutti, esserci è importante.
Il dialogo della vita si fa sempre in qualche posto concreto, è importante sia accogliere, sia andare. Soprattutto farsi invitare ed entrare in casa (assolutamente qui non difficile!) … è importante. Accogliere gli altri da noi, andare da loro, e non è la stessa cosa. Non è lo stesso giocare a casa o in trasferta.
Quando tutto questo s’incammina verso l’essere un vero dialogo? Dialogare vuol dire che tutti e due gli interessati parlano, possibilmente non contemporaneamente, e che tutti e due ascoltano.
È il cuore che conta e il lavoro della testa: conta come si ascolta, come ci si gioca, come si cerca di capire, come si cerca di essere compresi…
A seconda dei movimenti del cuore e della testa, vicinato, feste, conversazioni e mezzi di trasporto sono dialogo. Certamente, non può fare dialogo una persona sola: occorre trovare l’interlocutore, ma se ci si pone nella disponibilità ad accogliere e andare, di persone disposte a questo dialogo le si incontra, e non poche!
Il campo estivo dei bambini. I corsi di sostegno. Il teatro per i giovani. L’aiuto ai malati di Alzheimer. L’educazione dei bambini disabili. L’artigianato delle donne. La visita alle prigioni. Le biblioteche per gli studenti. La formazione al lavoro.
Ci sono tanti esempi, le giornate sono piene di questo dialogo, per fare insieme delle cose buone, che aiutano la persona a crescere, che orientano al bene.
Un terreno comune da cui partire non è difficile trovarlo. Poi c’è la sfida della differenza che emerge: i nodi della gratuità o del merito, del perdono o della chiusura, della fiducia o della paura, dell’uguaglianza o della discriminazione, e altri ancora.
La sfida della differenza può trasformarsi in un vero dialogo delle opere e andare oltre.
Il dialogo spirituale è bello: parlarsi di Dio, condividere esperienze spirituali, pregare per le stesse cose, raramente insieme. La profondità non è immediata, certamente, per questo quando la si coglie è tanto preziosa. Ci sono luoghi e incontri in cui si può dire come si vive la presenza di Dio, il rapporto con lui, la sua misericordia e il suo sguardo sull’umanità; in cui si può parlare della preghiera, della carità, di come si pensa che Dio faccia con noi, di come si percepisce il suo aiuto e la sua protezione.
È uno scambio gratuito che fa riconoscere come lo Spirito agisce nel cuore e nella vita e quindi ha come primo frutto una fiducia più grande nell’azione di Dio, nell’universalità del suo amore.
Per il dialogo teologico ci sono dei luoghi e delle occasioni: una tavola rotonda a Notre Dame d’Afrique; le riflessioni sulla beatificazione… Occorre ancora più attenzione a cogliere posti e momenti possibili; più convinzione e determinazione, forse, più fiducia e passione.
Ci sono le tentazioni del dialogo.
Una prima tentazione è dire che siamo solo noi che vogliamo il dialogo e quindi è praticamente impossibile farlo. Con una sorta di scoraggiamento e impotenza, diciamo che agli altri non interessa dialogare, che non è importante per loro, non prendono l’iniziativa. E il dialogo si può fare solo in due.
Ora, se è vero che a noi interessa, non possiamo rinunciare. Non è una strategia politica, ma una spinta dello Spirito. E poi, non dimentichiamo la lunga strada che ci ha portato a dove siamo adesso. E come ciò implichi, come in tutti i popoli in cammino, che qualcuno sia in testa alla fila e altri in fondo e forse arrancano, o sostano, e comunque tra loro e la testa del gruppo c’è ancora una bella differenza. Infine, approfondire la conoscenza reciproca aiuta a capire l’idea di verità e di salvezza che sottostanno alle resistenze.
Una seconda, importante tentazione è minimizzare. Quando ci si parla, si dice: in fondo c’è un Dio solo; alla fine crediamo nello stesso Dio… Ma non è vero.
Certo che esiste un Dio solo. Ma quello in cui crediamo è un Dio molto diverso. Si dice che tanto è lo stesso per avvicinarsi, per non farsi paura, perfino per non offendere mostrando che si preferisce evidentemente il proprio Dio… in parte lo si crede per ignoranza, perché non si conosce in realtà il Dio dell’altro, o molto poco.
Che il Dio in cui noi crediamo sia davvero come il Dio in cui i musulmani credono, direi di no. Certo crediamo in un Dio creatore, e poi nel giudizio, e poi nella misericordia. Ma se credi in Gesù o non ci credi, non è proprio la stessa cosa: con lui, Dio diventa Padre e tutto diventa diverso! Gesù c’è nel Corano, ma è ben diverso dal nostro, anche se alcuni aspetti sono comuni. E anche nascosto nelle righe del Corano, il vero Gesù attira.
Per fare dialogo, non si può accontentarsi del minimo comune denominatore. Le voci dei due che dialogano devono mantenersi distinte. Non bisogna aver paura della differenza e dirsi solo le somiglianze.
A livello di dialogo di vita, chi ci dice che in fondo abbiamo lo stesso Dio non vuole fare affermazioni teologiche, ma esprimere vicinanza, desiderio di pace. Pur sapendo che la differenza non è necessariamente lontananza o conflitto, possiamo accettare questo approccio affettivo, come avviene almeno inizialmente nel dialogo delle culture. “Anche noi parliamo con le mani come voi, anche noi amiamo il calcio, anche noi siamo accoglienti, amiamo discutere… siamo sulle due sponde del Mediterraneo, siamo simili!”. Ma siccome questa è una semplificazione e non si è pronti ad accettare veramente la diversità, se non si intraprende un cammino più coraggioso, arriva il momento in ci si delude reciprocamente e sbrigativamente ci si rinchiude nel “il mio modo è meglio”.
Da parte nostra, il cominciare e il restare solo sulle cose comuni rischia di essere interpretato dall’interlocutore come un cedere… e cedere sui punti più importanti della nostra fede, senza i quali non siamo cristiani: l’incarnazione, la morte e resurrezione di Gesù, la Trinità.
Invece di cominciare a cercare le cose che uniscono, forse è meglio cercare quelle diverse. Sempre con rispetto, anzi con stima, vale la pena cercare insieme. E mentre crediamo che il Dio di Gesù è proprio speciale, sentiamo che questo lavoro di guardare insieme la fede è importante e ci cambia. Tutti abbiamo domande aperte e gli incontri, gli scambi, i confronti ci fanno camminare. “Superando i pregiudizi e i fondamentalismi di ogni parte, la chiarezza della propria identità e l’apertura dell’intelligenza e del cuore fanno del dialogo un viaggio fraterno verso la verità alla quale lo Spirito ci guida” (C 21).