L’estate è ormai nel pieno del suo vigore. Ci immaginavamo giornate assolate con gli schiamazzi dei ragazzi nei cortili degli oratori e per le vie dei nostri paesi e città. Ci ritroviamo con un’estate “a metà”, limitata dall’ospite incomodo che ha invaso le nostre case e il mondo intero: il Covid-19. Siamo disorientati. Abbiamo timore a salire di nuovo sui mezzi pubblici, a incontrarci. Ci troviamo divisi tra “catastrofisti” e “impavidi”, tra quelli che rimarrebbero chiusi in casa per i prossimi sei mesi per timore del ritorno del virus e quelli che frequentano la movida serale senza mascherine e distanze sociali. Con i media che ci riempiono di notizie contrastanti. E noi, tirati a destra e a sinistra, rischiamo di rimanere bloccati nella paura.

C’è sicuramente bisogno di un tempo di adattamento, ma questo non può essere dominato dall’ansia e da prospettive apocalittiche su un inverno dominato dal Coronavirus. Nessuno sa cosa ci aspetta, sappiamo solo che, nel caso l’epidemia tornasse, dovremo applicare le dovute precauzioni ed evitare gli errori già commessi. Nessuno però sembra domandarsi: e se l’epidemia non tornasse? Saremmo pronti per ripartire? Per tornare alla normalità, quella vera e piena? Quella dove può anche capitare di pressarsi in metropolitana o di affollare un’aula scolastica perché lì c’è la vita che esplode? Mi pare che stiamo correndo il rischio di lasciarci sopraffare dalla paura finendo per accettare una vita dimezzata. Questo non deve accadere!

E il mondo cristiano, a Milano come a Calcutta, a Helsinki come a Città del Capo, deve dire una parola di speranza forte e vera. Una parola che riporti la riflessione e lo sguardo verso la Risurrezione, perché dalla croce siamo già passati. Non possiamo rimanere aggrappati alla croce, perché lì si muore. Serve uno scatto in avanti, un salto di affidamento, quello che fa dire: «Sono sicuro che la vita ripartirà come prima e meglio di prima, perché Tu sei l’origine e la fonte della vita vera!».

Noi cristiani siamo stati troppo silenziosi e sommessi in tutta questa vicenda. Ci siamo preoccupati solo di poter ritornare a celebrare nelle chiese, ma ci siamo dimenticati di ricentrare i volti e i cuori sulla Risurrezione di Gesù e da qui ripartire per trovare la speranza vera e duratura, quella di Cristo che ci riporta sempre alla possibilità di una novità inedita. Non è espressione di un atteggiamento ingenuo e superficiale verso la complessità delle cose, ma è il modo di stare nella realtà di chi si affida a Qualcuno di più grande, a Colui che è la salvezza. Perché per tornare a vivere veramente serve speranza. La paura non fa vivere, mai! Annunciare, raccontare, contaminare il piccolo mondo attorno a noi con la speranza cristiana è fare missione, è annunciare la novità del Vangelo che sembra non c’entrare nulla con la fatica di queste giornate. Eppure Cristo c’è. La sua Parola e la sua presenza generano vita nuova anche dentro questa vicenda. Se noi cristiani non avremo questo sguardo, chi ridonerà speranza al mondo impaurito? Perdere questa occasione sarebbe una mancanza gravissima verso il mondo intero. Non possiamo permettercelo!

p. Mario Ghezzi – PIME

Mondo e Missione – n. 6 Luglio 2020

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