Oggi abbiamo la possibilità di leggere l’esperienza di una giovane missionaria, sr. Sushma Kalyani Aind, della Provincia Siliguri – India. Originaria del Nord dell’India, ha vissuto le diverse fasi della sua formazione in differenti zone dell’India, cambiando molti luoghi e conoscendo diverse lingue. Il 24 di Maggio del 2015 è stata destinata al Bangladesh, la sua terra di missione, dove vive dal 10 Marzo 2018.

  • Come puoi descrivere il tuo percorso di inculturazione in missione? In che modo è stato facile adattarti al nuovo paese e alla nuova cultura, e in che modo difficile?

Guardando al mio percorso, posso dire che da quando sono entrata nella Congregazione, l’inculturazione è stata parte della mia vita. Arrivando da un contesto tribale, infatti, anche Siliguri per me costituiva una realtà nuova e differente, sia per cultura che per lingua. Di conseguenza, questo è stato per me il primo posto dove esercitarmi a relazionarmi con culture differenti, e anche dove conoscere me stessa e le mie reazioni .

Dall’infanzia ho potuto abituarmi a parlare in diverse lingue, perché nella mia zona d’origine sono diffuse diverse lingue locali, e ho sempre cercando di sperimentarmi nell’imparare. E’ sempre stata una mia preoccupazione nell’avvicinarmi alla missione il poter imparare molto bene la lingua, al fine di essere in grado di comunicare con tutti. Sento profondamente, infatti, l’importanza che la lingua locale ha per i popoli a cui siamo mandate.

Quando finalmente sono arrivata in Bangladesh, non ero nuova all’idea di incontrare nuova gente e una nuova lingua, grazie alle opportunità e alle grazie avute e sperimentate nel tempo della mia formazione. Ero anche un po’ avvantaggiata, perché per il mio background riuscivo ad intuire cosa le persone stavano dicendo, anche se non ero a quel tempo pronta per poter rispondere. Questo ha accresciuto in me l’entusiasmo e il desiderio di imparare il bengalese velocemente, per essere in grado di rispondere e dialogare presto con tutti. Ho studiato bengalese a Khulna – Khalishpur, nel sud del Bangladesh e dopo alcune esperienze in altre comunità sono stata poi destinata a Khulna – Boyra per lavorare come infermiera nel nostro ospedale per lebbrosi e pazienti di TBC.

Anche se ho studiato come infermiera e ho poi perfezionato i miei studi con le esperienze lavorative in India, questa responsabilità di primo acchito ha creato in me un po’ di insicurezza, mi chiedevo: ‘Sarò capace di lavorare bene in un ospedale grande e organizzato, in un nuovo paese, parlando una nuova lingua?!?’. Devo ringraziare sinceramente il Signore perché nel mio cammino ho potuto trovare molti aiuti e non mi sono mai sentita sola, insieme a sr. Shopna Cruze (la sorella mdi Bengalese che era responsabile a Khulna prima di me e che mi ha introdotto al lavoro), a sr. Roberta Pignone (la sorella mdi dottore e direttore dell’ospedale) e a tutto il personale, che mi ha dato una mano in ogni momento ne avessi bisogno.

Dal mio punto di vista inculturazione significa anche quindi comprendere un nuovo stile di lavorare, inserirsi in nuove necessità e nuovi bisogni. Infatti, qui in Bangladesh, a causa della seria mancanza di dottori in molti villaggi e zone rurali, le nostre sorelle mdi infermiere impegnate nei dispensari si trovano frequentemente a fare ogni tipo di intervento, più di quello che in genere è strettamente richiesto ad un’infermiera, come ho potuto vedere e sperimentare nella mia piccola esperienza insieme a loro.

  • Secondo la tua esperienza, quali sono gli elementi più importanti per un stile di vita davvero missionario?

Per accettare e capire la vita di un altro, per me la prima cosa che è assolutamente necessaria è capire chi sono io.

Se conosco chiaramente la mia identità come missionaria, devo poter essere pronta per ogni tipo di lavoro e per rispondere ad ogni necessità, pronta per andare in qualsiasi posto: un missionario è sempre pronto, pronto ad accettare, pronto a lasciare.

Questa parola, ‘pronto’, significa per me anche la capacità di adattarsi al cibo, alla lingua, alla società, ma anche la capacità di accettare di dover sacrificare qualcosa di noi stessi… Queste parole di sr. Lucy de Mello, la sorella responsabile della nostra formazione (ora in missione in Algeria), mi ricordo chiaramente: ‘nel dizionario del missionario non esiste la parola NO!’.

Secondariamente, penso che un altro elemento importante per un missionario sia di dimostrare, sentire e gioire d’amore con la nuova terra in cui vive. Come missionaria so che sono venuta a causa di Gesù, perché il Signore mi ha destinato e mi ha mandato qui, tra questa gente. Forse nessuno riesce per ora a capirmi o forse io non riesco del tutto a capire loro, ma posso almeno dimostrare il mio amore verso di loro. Questo amore e questa gioia possono essere testimoniate attraverso piccole cose come un sorriso e un semplice gesto di gentilezza, di cura e di attenzione per la gente.

In ultimo ma non per importanza, il fondamento di ogni esperienza missionaria deve essere la preghiera e la fede, come diceva P. Paolo Manna – PIME, ispiratore del nostro carisma, un missionario senza la preghiera è un missionario fallito.

  • Che tipo di consiglio daresti ad un nuovo/a missionario/a che sta arrivando ora nella sua nuova tanto sognata terra di missione? Che tipo di scelte e di attitudini possono aiutarlo/la ad entrare facilmente nel nuovo contesto?

Per ora ho avuto solo una piccolo esperienza come missionaria qui in Bangladesh, ma posso dire che la prima cosa importante è essere convinti di se stessi e della propria vocazione. Un nuovo missionario/a nei momenti di gioia e di difficoltà deve ricordare a se stesso/a: ‘Sono qui per Gesù, non per me stesso’. Le difficoltà e le sfide possono arrivare, ma noi possiamo sempre dire con le parole del Vangelo che ‘il suo giogo è dolce, il suo carico leggero’ (Mt 11,30).

Il secondo consiglio che mi sento di condividere arriva dall’esperienza di un’altra sorella indiana, sr. Lizzy, che era solita dirci che nell’approccio alla nuova missione prima di tutto dobbiamo guardare e ascoltare attentamente e solo in seguito piano piano inserirci. Ci diceva: ‘Voi potete avere molte idee, ma dovete sacrificare un po’ di voi stesse e prima di tutto cercare di vedere come loro agiscono, cosa pensano, qual è il loro modo di risolvere i problemi…Noi siamo mandate in missione per la gente e con semplicità e umiltà possiamo imparare passo passo dai nostri errori’.

In terzo luogo, penso che il sentimento di appartenenza ad un’altra cultura e ad un altro paese, inizi più di tutto da una determinazione interiore. E’ un lavoro che deve partire da me e deve continuare dentro di me. Per sentirmi parte della comunità, il primo sforzo deve essere fatto dalla mia parte. Nella mia esperienza in Bangladesh ho scoperto come questa attitudine di incoraggiamento e supporto sia caratteristica della cultura bengalese, e questo è un punto che può aiutare molto noi missionari, ma questo da solo non può sostenere la nostra vocazione. La certezza di essere parte del popolo e di essere membro di una nuova famiglia deve iniziare da me, dalla mia scelta di fede.

  • Condividi con noi una frase o una citazione che può sintetizzare ed esprimere il tuo punto di vista o la tua esperienza.

Perché tu sei prezioso ai miei occhi,

sei degno di stima e io ti amo,

io do degli uomini al tuo posto,

e dei popoli in cambio della tua vita.

Non temere, perché io sono con te.

(Is 43,4-5)

Durante il tempo della mia formazione mi sono innamorata di questo passo. Rappresenta la certezza dell’amore di Dio per me. Perfino o specialmente i momenti in cui realizzo i miei errori o le mie debolezze, sono opportunità per apprezzare veramente e appieno l’amore di Dio per me, un amore gratuito e capace di perdono.

  • Raccontaci un episodio o un fatto che in questi anni di inculturazione è stato importante per te per capire e inserirti nella nuova cultura.

Il contatto e la relazione con i pazienti sono il centro della mia attività come infermiera. Molte volte quando sono con loro per le medicazioni, o per i medicinali, o per i pasti, cerco di parlare con loro per esprimere la mia cura, cercando di dare anche loro spazio per parlare e condividere. Un giorno è successo che un paziente mi dicesse: ‘sister, è molto bello ascoltarti, posso farti una domanda?’. Poi, guardando e indicando con il dito una immagine di Gesù che abbiamo sulla mensola mi ha chiesto: ‘Lui chi è?’. In un attimo mi sono sentita gelare. Viviamo in un paese musulmano, lavoriamo nel nome di Gesù e viviamo tutto per lui, anche se non possiamo neanche parlare di lui. Non è una cosa comune ricevere una domanda come questa. Ho avuto il coraggio e la grazia di rispondere: ‘Questo è il nostro Dio, noi crediamo in Lui e abbiamo collocato questa immagine qui perché possa guardare anche voi, sentirci, percepire i vostri bisogni e le vostre necessità. Il paziente subito dopo mi ha chiesto di pregare insieme allora, come lui era solito vederci fare al mattino, insieme allo staff dell’ospedale, e in quel momento abbiamo pregato insieme. Sono grata a Dio per questa piccola esperienza, perché mi aiuta sempre a ricordare che la mia vita è la prima proclamazione di Gesù e la prima testimonianza del suo amore verso gli altri.

sr. Sushma Kalyani Aind, Bangladesh Province

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