Una speranza che entra, una speranza che esce
La speranza può entrare in carcere quando la sbarra dell’ingresso si solleva a far entrare l’automobile, quando il guardiano mi saluta chiamandomi per nome, quando sosto nell’ufficio di Hayat, la poliziotta che mi accoglie prima delle visite per controllare cosa ho con me, quando si aprono una dopo l’altra le porte di ferro.
La speranza è autorizzata a entrare da un prezioso foglio che porto con me, l’autorizzazione a visitare i carcerati di confessione cristiana, in otto carceri della diocesi di Orano.
Ho altri tre fogli che parlano di speranza e descrivono la pastorale carceraria in Algeria. Sono tre liste.
La prima è una lunga lista di nomi di carceri, in tutto il paese, da Algeri, Bejaia, Mostaganem, Orano al nord sul mare, a Boussada, Bechar, Ain Sefra a sud, nel deserto. Possiamo avervi accesso.
La seconda è la lista, anche lei piuttosto lunga, di missionari e missionarie, consacrati e qualche laico che hanno l’autorizzazione di visitare i carcerati. In Algeria i membri della Chiesa possono ottenere dal ministero degli interni questa autorizzazione che riguarda esclusivamente i carcerati cristiani e quindi prevedibilmente stranieri.
La terza è la lista dei carcerati che visito, in larghissima maggioranza giovani dell’Africa subsahariana: Mali, Sudan, Senegal, Guinea Conakri, Sierra leone, Nigeria, Camerun… Francofoni, anglofoni, qualche arabofono sudanese. La loro situazione: probabilmente sono stati arrestati per trasporto di droga, o per documenti falsi, o riciclaggio di soldi, magari anche altro, ma non chiedo mai perché sono lì. Qualche volta si sono semplicemente trovati al posto sbagliato nel momento sbagliato. Non ricevono nessuna visita, ovviamente, sono soli, essendo in situazione di migrazione. Le loro famiglie sono a migliaia di chilometri.
A seconda della prigione, possiamo o no portare dentro qualcosa, qualche libro o quaderno, qualche dentifricio, o banane, zollette di zucchero, biscotti senza crema, oppure niente del tutto (dipende molto dal direttore della prigione). Possiamo fare per posta dei piccoli versamenti in denaro, con il quale possono comprare qualcosa al magazzino del carcere.
Ma non è la cosa più importante. Il servizio più bello che possiamo rendere è cercare e poi mantenere i contatti con le famiglie. Ce ne sono che erano convinte che il loro parente fosse morto, prima di avere notizie da noi, magari anche dopo qualche anno.
Prima delle visite entriamo in contatto via WhatsApp o Messenger con genitori, fratelli, sorelle, mogli o fidanzate, qualche amico… Chiediamo se ci sono notizie, se vogliono scrivere messaggi o mandarci foto che poi stampiamo e possiamo consegnare oppure spedire per posta, sempre a seconda delle regole del carcere. Intercettiamo esperienze di perdono con padri e fratelli, di fedeltà con spose o fidanzate.
Così entra la speranza: con le parole dei familiari, le foto della vita e della vita di prima, le notizie del mondo. Chiedono sempre che cosa succede, soprattutto nei loro inquieti Paesi. La speranza entra con il nostro interesse per loro, uno per uno.
Anche il momento di preghiera che facciamo insieme, un commento del vangelo, una breve condivisione, è una porta di speranza, consola, fortifica. Non chiediamo a chi si presenta all’incontro la sua religione e il gruppo finisce per essere interreligioso.
La speranza si vede dal loro ritrovarsi, perché vivono in blocchi diversi e la nostra visita è una occasione di incontro, di conversazioni tra loro, di rumorosa allegria e a volte baruffe.
Ma la speranza esce anche dal carcere con noi che la riceviamo da loro. Colpisce la loro incredibile pazienza, il loro sguardo sulla vita, la loro gioia e la loro riconoscenza per piccole cose. Un giovane del Mali ci ha detto: i miei compagni di carcere algerini dicono che è incredibile quello che voi fate, di venirci a trovare, e sono contenti per me.
Possiamo diffondere questa speranza a doppio senso di marcia. Allargarla. Scrivere lettere, ecco una bella attività apostolica che suggeriamo: sarebbe un bel volontariato da proporre a studenti italiani, a giovani che sappiano francese o inglese, quello di scrivere a dei giovani carcerati che sono soli ma credono ancora nell’amicizia e nella solidarietà. Se qualcuno ci sta, noi siamo qui per orientare e fare da tramite.
Equipe della pastorale carceraria in Algeria