E all’improvviso vedere che i ragazzi, i giovani con cui lavori nella Commissione di Pastorale Giovanile a Mymensingh in Bangladesh ormai da tre anni fra vari programmi e seminari, si guardano l’un l’altro e chiacchierando ti danno un nuovo nome: ‘Sister, se dovessimo attribuirti un nome in mandi, nella nostra lingua, ti chiameremmo ‘Janggi’… Che vuol dire Vita!’.
A quelle parole ho sentito insieme gioia, timidezza, imbarazzo. Quella parola ‘Vita’ che mi è entrata dentro e mi ha richiamato altre parole come forza, entusiasmo, coraggio, speranza, mi ha portato alla Parola di Dio: ‘Un pastore da’ la vita per le pecore’. Ho sentito quella parola ‘Vita’ mettere radice in me come una chiamata, come una vocazione più alta, come una destinazione che non mi aspettavo.
In questi anni di esperienza con i giovani in Bangladesh, mi sono accorta delle loro tante sfide: prima di tutto vivere in un mondo e in una società in cambiamento, che guarda all’Occidente ma rimane profondamente radicata nella cultura Islamica e Indu, e in cui i cristiani rappresentano solo lo 0,3%. Fra i giovani domina poi la fatica del portare avanti una buona istruzione e formazione, perché ha dei costi esorbitanti e le possibilità economiche non sono alla portata di tutti, ma anche per necessità famigliari e sociali che non lasciano lo spazio allo studio e impongono di lavorare da giovani. Per coloro che riescono a terminare gli studi, tuttavia molto spesso è impossibile trovare un posto o un lavoro in accordo con quello che hanno studiato, per le poche opportunità date dalla società, e allora ecco il rischio di demotivazione, depressione, ansia. Tanti giovani sognano di andare via dal loro villaggio o addirittura all’estero e cercano di tutto per riuscirci, spesso indebitandosi o mettendo in crisi le famiglie.
In questa missione affidatami con i giovani in Bangladesh ho scoperto in loro tante qualità preziosissime, come una resistenza e una resilienza formidabili, forgiate dalle difficoltà vissute fin da piccoli. Ho visto talenti artistici e musicali naturali, ho contemplato l’amore profondo di ognuno per la storia e la bellezza del proprio Paese, e il loro amore profondo alla Chiesa, con desiderio di servire e aiutare il prossimo.
È stato in questi anni di apostolato con loro che mi sono resa conto nuovamente di quanto sia importante lo stare accanto, essere speranza quando per loro tante porte si chiudono, aiutarli a guardare oltre, a vedere il positivo, a resistere, come quelle poche parole nel Vangelo di Luca che in realtà nascondono una giornata intera: ‘Mentre discorrevano e discutevano insieme, Gesù in persona si accostò e camminava con loro.’ (Lc 24,15). ‘Camminare con loro’ ora per me vuol dire contemplare loro come protagonisti, che cantano, pregano, danzano, lavorano, faticano, imparano… E che certe volte vuol dire non riuscire a fare molto, vuol dire sperimentare impotenza e povertà. Come nel caso di Dibosh, un ragazzo brillante negli studi e leader in compagnia, che da un anno circa partecipava a diversi nostri programmi per i giovani. Intelligente, oratore e con poca sensibilità pratica, accettava bonariamente qualche ironia su di lui fatta dagli amici. Alla fine di quell’anno si sposa con Lucy, quasi improvvisamente, come capita a molti che si sposano giovanissimi in Bangladesh, molte volte con matrimoni organizzati dalle famiglie. Da allora non lo vediamo più molto spesso, fra il lavoro e la cura della famiglia… Un giorno ci arriva una notizia terribile: Lucy si è suicidata, incinta al quinto mese. È stato lui a trovarla nella loro stanza da letto, appesa ad una fune. Niente da fare, né per lei né per il bambino. Giro di telefonate a raffica fra tutti noi della Pastorale Giovanile: ‘Tu sapevi qualcosa? Hai sentito? Ci hai parlato?’. E quello ‘stare con loro’, ‘camminare con loro’ che ti ronza nella testa… Cosa si poteva fare? Potevamo intuire qualcosa? Abbiamo fatto tutto il possibile?
‘Stare con loro’, ‘Camminare con loro’, perché la bellezza e la fragilità dei giovani sono due realtà compresenti e reali, specialmente in questa società odierna che butta su di loro tantissime pressioni e aspettative, e da parte mia cercare sempre la possibilità di conoscere e far conoscere meglio l’esempio di Gesù nel Vangelo, che da’ fiducia, ama senza misura, perdona… trovando la possibilità di alleggerire la loro fatica, di aiutarli a onorare gli impegni, di dare un consiglio giusto. Dare vita, insomma. Vita, Janggi.
Sr. Lorenza R. Radini, mdi in Bangladesh